La vita sotto i ponti

In Valle Olona le esili strutture sopra il fiume sussurrano sotto la Pedemontana. Ma la natura ci ricorda che la sostenibilità è un (complesso) volto antico

Fermata Candiani. Che cosa significa? Sostenibilità. Sì, quella parola magica che pronunciamo di questi tempi, convinti di avere in mano un’arma nuova per preservare il pianeta. Ma è antica, in tutta la sua complessità. Nella valle che accarezza il fiume Olona, la natura ha tante storie da raccontare, quante l’uomo. Noi, camminando in silenzio, abbiamo provato a raccoglierne alcune.

Sostenibilmente mia

Il fiume è una realtà immensa e imbrigliata. Ogni corso o specchio d’acqua ci affascina o ci delude, ma il fiume racconta (fin) troppo di noi. Quello che narra l’Olona è tutto suo, e al contempo affluisce in tanti altri fiumi, in una storia comune.

La risorsa di freschezza a cui hanno attinto per secoli in molti. Il luogo dove tuffarsi o lavare i panni, o respirare nella calura. Poi, la rivoluzione industriale e il suo ritmo accelerato, assieme alla convinzione che si possa fare a meno della natura.

In questa estate eterna o a sobbalzi, abbiamo provato a percorrere il fiume e il parco che lo accompagna. I ponti, spesso ponticelli, un luogo così minuscolo da spalancare il cuore e le esperienze: diversi mostrano le tracce dell’età, narrano che chi ci passava prima, oggi esiterebbe e qualcuno è inaccessibile. C’è un’ombra differente oggi, quella della Pedemontana: i suoi sovrappassi, hanno un rumore deciso e discreto al passaggio delle auto. Sopra, una vita che corre: se resti ad ascoltare, udirai come un tonfo lontano. Sotto, nel parco, una vita che si prende il suo tempo. E’ quella dei passanti, ci verrebbe da dire viandanti in omaggio a un’anticamente saggia abitudine.

Persone che passeggiano nel verde, o che fanno jogging, o ancora che sfrecciano libere con le biciclette, come fiori volanti Un angolo dove ciascuno può essere ciò che è. Forse, più di quanto avvenisse un secolo fa, perché sappiamo ciò che stavamo perdendo o ciò che abbiamo in parte perduto.

Cercando la vita

Anche noi siamo figli della Valle Olona. Io sono una sua discendente, la primavera pensavo sbucasse solo nel giardino del nonno. Molte storie, abbiamo narrato in Valle, Daniele Belosio e io.

Ci siamo rimasti anche intrappolati.

Nel giugno 1992, mi trovavo a Marnate, quando l’Olona si ribellò. L’acqua mi lambiva le ginocchia, ma soprattutto aveva preso per la gola il motore della mia utilitaria. Avevo lasciato mia madre dai familiari nel paese accanto e pensai che non ci sarei mai arrivata: una luce rossastra si stendeva sul cielo, mentre l’acqua saliva. Suonai disperata il campanello a un cancello di un’abitazione sconosciuta. Ora, quel signore mi fece entrare, mi aiutò, mi portò con la sua più robusta macchina dove si trovava mia madre, incrociando resti spettrali di macchine lungo la via. Alla fine ci riaccompagnò fino alla città, quando la mia auto si decise a ripartire, caricando l’intera famiglia per scortarmi: aveva timore di lasciare moglie e figlioletto da soli, nella valle scossa dai singhiozzi.

Ci lasciò solo quando fu sicuro che avessimo varcato l’unico ponte libero dall’acqua.

Il giorno dopo, la conta fu terribile. C’erano pecore morte lungo la valle, e ferite di cui provammo a narrare sui giornali. In sei ore caddero 118 millimetri di pioggia. E il peggio è che tutto ciò non era imprevedibile.

Pensai che l’Olona fosse terribile, perché non conoscevo l’uomo.

Quasi pace

Da allora, molto è cambiato e gli uomini hanno trovato rimedi. Da allora, gli abitanti rivogliono la propria valle. Si incamminano la mattina presto o la sera, oppure arrivano nel weekend.

Libellule dalle ali azzurrissime affollano l’aria e le foglie, e tu non sai se sia in effetti un buon segno. Accompagni il cammino del fiume in silenzio, ti spingi oltre, esiti e scopri un varco che non avevi sospettato.

Il nonno, da piccola, non ti portava lì: perché non c’era più la sua valle. E i nonni, non condividono ferite.

Così tutto sembra nuovo, anche se ti riporta alle tue radici. Gli animali si affacciano garbati, ma non timorosi. Un ragazzino ha persino l’ardire di farti scoprire un airone e raccontarti nei fatti anche che il bello è quella cosa lì: non (solo) la bestiola che si presenta, bensì il fatto che lei lo attenda. Che lo sappia fremente di scattargli una foto, eppure la mano per un istante impercettibile al bambino tremerà. E’ solo una favola e per questo gli crediamo.

Perché ci confida che è la prima volta in cui (davvero) vede un airone. Apposta, non per caso. Come se questo l’avesse aspettato appunto. E noi vorremmo spiegargli che l’ha proprio atteso.

Non c’è più la mia valle

Non c’è più la mia valle, quella in cui scorgevo i segni di primavera. Quella in cui il nonno dalla mitica via delle Vignole (di cui ancora oggi ripongo malamente l’accento) si andava a piedi fino al cimitero. Sul viale di ingresso, la lapide del prozio morto a Redipuglia: solo un segno tangibile, perché i suoi resti probabilmente riposavano sul luogo della battaglia. Indossavo una maglietta bianca, su cui inesorabilmente si abbattevano i moscerini: l’odore acre dell’aria ricordava che qualcuno stava scaricando i suoi fumi senza pensieri. E il fiume soffriva anche più in silenzio.

I fiumi, in apparenza, non si ribellano. A lungo, non per sempre.

Non c’è più la mia valle, mormoravano gli occhi buoni del nonno Mario.

Quella in cui mi tuffavo approfittando delle acque fresche e pulite. Quella del progresso, che mi diede da lavorare, ma poi l’azienda chiuse e io avevo due bambini. Allora, disperato, mi trasferii nella mia città. No, dico una scemata: non era mia. Eppure mi diede da lavorare e ci sfamò. Solo che io sognavo sempre, di tornarci nella mia valle. Coltivavo anche l’orto nella città, come per tenermi in esercizio. Un giorno ci tornai, ma non osai mostrare il volto ferito alla mia nipotina.

Un villaggio bello e buono

Una domenica, arrivi invece a Callipolis, perché ti narrano che lì troverai le volpi e altri animali che avevi perso di vista. Me lo dice un pasticciere saggi a Solbiate Olona, che ama la sua terra quanto la sua attività. Lui fa parte della mia famiglia e studia come rendere felici tutti. Mi commuove e mi fa pensare all’arte del nonno.

Lui condivide ogni scoperta della Valle. Tipo quando gli racconto la storia dell’airone. Mi dice che gli aironi, da quando c’è la Pedemontana, da lui non passano più. Non è apertamente rammaricato, perché a casa c’è qualcuno che se ne rallegra: sono i suoi pesci. Prima tremavano all’albeggiare, perché vedevano l’ombra delle ali che scendeva su di loro. Adesso, sanno di potersi rilassare.

Per chi dobbiamo tifare? Per i pesci o per gli aironi?

O meglio, perché tifare?

Dobbiamo poi tifare?

La natura è pazienza, forse rassegnazione. Io solco la Pedemontana, quando ho una fretta pazzesca di raggiungere Como e dintorni, e so che l’autostrada pullula di auto. Adesso che ho rallentato, la osservo da sotto i ponti. Un ciclista mi passa vicino, poi due. Il mio pensiero corre fino alla scala magica di Solbiate Olona: non perché sia facile, al contrario è così impegnativa e stretta, i ciclisti afferravano le bici sulle spalle. Magica, perché rivelatrice.

Ci riporta a un periodo bellissimo: quello in cui contava il sudore, mai la finzione.

Passando da Solbiate Olona a Fagnano, sfiorando Gorla Maggiore, ci sono segnali di vita che si propaga come un’onda buona. Non è solo il verde, che sprigiona il proprio grido. Ci sono quelle rotaie abbandonate, binari dove ora sfreccia l’erba e ci viene da percorrerli con un urlo di libertà. Il solerte cartello ci ricorda che il treno della Valmorea era talmente connesso con la vita delle aziende e del loro personale: tanto da avere una fermata Candiani.

Scriviamo talmente spesso di sostenibilità nelle imprese, da temere di svuotare la parola. Uno dei grossi problemi attuali è di convincere i lavoratori a venire con i mezzi pubblici: non rappresentano spesso il massimo della comodità e la nostra mentalità fa il resto.

Un tempo, qui c’era la fermata Candiani. La folla numerosa che si recava a lavorare qui, non aveva esitazioni: le macchine non esistevano, nelle loro vite. L’azienda organizzò affinché non avessero problemi a viaggiare in Valle.

L’azienda, pensava a tutto. A mio nonno, offrì un appartamento nel palazzo degli operai. Vedendo l’imponenza dell’edificio in confronto al suo cortile di Solbiate, Mario Galli lo accettò piccino, l’appartamento, temendo di non poter pagare l’affitto altrimenti. Quando scoprì che ce l’avrebbe fatta in abbondanza – perché l’azienda pensava a tutto – non ebbe tempo di rimproverarsi: pensò che avrebbe risparmiato abbastanza da tornare nella sua Valle. Presto, prestissimo. A costo di fare il pendolare in bicicletta anche quando la neve era fitta e per arrivare a Busto Arsizio al Cotonificio Bustese, doveva partire nel cuore della notte. Portarsela sulle spalle, la bici, come i corridori sulla scala magica.

La vedo io

Eppure la sua Valle, non la vide più. La vedo io. La macchina fotografica di Daniele. Appena passa l’airone, sull’acqua striscia un movimento di sollievo: l’abbiamo scampata, sussurrano altri animaletti alati.

Quotidianamente, ho la fortuna di scrivere di sostenibilità e mi stupisco dei progressi nelle aziende. Sfoglio storie e riflessioni. Ricordo che chi ha fatto il grande manager come Marchionne, ha chiesto anche alla natura di insegnargli. Non dimenticherò mai Emilio Trabella, il suo girovagare laborioso tra i giardini e i parchi, che me li faceva pregustare.

Ti mostrerò Villa del Balbianello, veramente.

Mi raggiungerà però anche l’eco di questa camminata e mi dirà: noi sì, che eravamo sostenibilità. C’era chi faceva del male al fiume, tanto, eppure tanti progressi di cui vi vantate oggi, erano già parte di noi.

Potrei rispondere loro: sì, ma non eravate capaci di raccontarla.

Oggi preferisco dire: non ero capace di ascoltare.

Per questo motivo è delizioso in Valle Olona e al cospetto di ogni fiume. Sedersi ad aspettare il cadavere delle nostre abitudini e cominciare a camminare in un parco così nuovo che ci racconta di ciò che siamo stati. E come dovremmo avere cura di essere.