Non siamo di passaggio

Piacenza è una terra che spesso si attraversa: uno chef stellato e i suoi colleghi innamorati del territorio ci invitano a fermarci e a prendere del tempo

Mio nonno diceva: se pensi di essere ricco, ma non hai il tempo di giocare a briscola con gli amici, sei un poveraccio.

Daniele Repetti

Carpaneto Piacentino

Questa frase pronunciata dallo chef stellato Daniele Repetti ci segue lungo la via del ritorno: stiamo lasciando la terra piacentina e questa volta non l’abbiamo attraversata.

Ci siamo fermati. Ci siamo presi del tempo, cogliendo il suo invito.

Daniele ci ha chiamati a Carpaneto Piacentino perché ha qualcosa da raccontarci, di cui il suo menù – una ricerca costante e senza confini, che fa assaporare l’amore per il territorio e la fame di conoscere altre culture – è un capitolo fondamentale. Non l’unico. Un po’ come quando si ama tanto una persona, che la si vorrebbe mostrare e far conoscere, apprezzare: tanto più quanto questa ci appare meravigliosa, ma ha una propria naturale ritrosia (due caratteristiche spesso congiunte).

Così, così prima di arrivare da Daniele e da sua moglie Lucy al Nido del Picchio, su suo stesso invito prima ci fermiamo altrove. Siccome siamo stati molto mattinieri, ci siamo concessi anche una piccola deroga geografica, sfondando il confine piacentino. Ci perdonerà.

Anche questo spiega il motivo di dover raccontare questi luoghi. Siamo partiti prestissimo, in una domenica estiva del 2019, perché scottati dall’esperienza quotidiana: dal traffico che ci accompagna solitamente da Milano a Piacenza. In quel periodo, alla routine si può innestare con effetti non prevedibili lo spostamento dei vacanzieri.

Spostamento. Sì, perché ci si muove, si passa da questa zona, la si attraversa appunto.

Come tutto ciò che si sfiora, vi si dedica minore attenzione, ma qualcosa forse resta sotto pelle. Ha bisogno solo di essere risvegliato.

Noi ci proviamo partendo da qui.

Aspettando il Castello

La casa di Giuseppe Verdi, dove scrisse le opere della maturità, proprio nel Piacentino

Siamo diretti al Castello di San Pietro in Cerro, ma con la nostra preoccupazione di pendolari vaccinati alle autostrade affollate, ecco che siamo arrivati con quasi due ore di anticipo. Ci fermiamo nel paese, al bar La Palta (non sappiamo che evoca le tabaccherie di una volta, questo nome) per un caffè. Rivolgere una domanda per orientarci alla proprietaria significa non solo ottenere preziose informazioni, ma assaggiare ciò che gusteremo poi: la passione per il luogo dove si vive e lavora. Ci osserva la cagnolina nel portico, che sta aspettando il passaggio dei suoi amici a quattro zampe, mentre i clienti si affacciano.

E’ questa signora a invitarci a respirare un po’ di aria d’opera, attendendo l’ora dell’appuntamento, e noi obbediamo. Qui vicino, a Sant’Agata di Villanova c’è la casa dove Giuseppe Verdi compose le opere della maturità. Quando ci fermiamo, non si può ancora visitare vista l’ora, ma l’operatrice gentilmente ci dà alcune informazioni e ci mostra il giardino che si apre con intensità sulla villa, acquistata da Verdi nel 1848 e via via plasmata a sua immagine. Parliamo del festival, di come attiri appassionati da tutto il mondo.

Siamo così conquistati, che ci spingiamo fino in provincia di Parma, a Busseto. E siccome le cose belle si attraggono, spesso con più potenza di quelle sgradite, accanto alla casa natale del maestro troviamo il Caffè Guareschi e la mostra dedicata al giornalista e scrittore. Ci dà il benvenuto un’immagine di don Camillo che pedala; sotto c’è una bici vera. La cosa più terribile è che abbiamo poco tempo, visto che siamo attesi, ma prendiamo alcuni appunti e documenti. Tra il materiale ecco il numero di aprile 2019 de “Il Fogliaccio” (vi invitiamo a proseguire il viaggio con quello successivo).

Ci piace porgere una frase qui riportata su Guareschi e tratta da “Gioia” nel 1961.

… Ne ha pieno quel gran cuore, e se non le dice, quelle cose (le tante a cui vuol bene, ndr), il gran cuore gli scoppia.

Umberto Panin

Anche questa frase ci segue, docilmente, e ci accompagna mentre torniamo in provincia di Piacenza, per prolungare il gusto di un’identità che non abbiamo ancora scoperto. Ma che trabocca di voglia di raccontarsi. Prima di varcare il confine, disseminiamo immagini rimaste dentro di noi.

Un castello in viaggio

Il viale di ingresso del Castello

Al Castello il sogno della famiglia Barattieri è arrivato dritto al nostro secolo, grazie a Franco Spaggiari. E’ lui che ha preso in mano e a cuore il destino di questo piccolo gioiello: l’ha trasmessa alla figlia Francesca, questa sensibilità che percepiamo anche come ricerca e pazienza.

Lo chiamiamo un castello in viaggio, perché ci fa attraversare non solo le epoche, bensì i luoghi. Così profondamente radicato nella sua terra, anche se la famiglia che lo edifica, viene da Venezia. I Barattieri, appunto. Una storia avvincente, fin da quando ancora si aggira in laguna, perché grazie alla capacità di recuperare due colonne dal fondale, l’avo ottenne dal doge di poter gestire una casa da gioco. Ciò che era un vantaggio, via via diventò più scomoda, almeno come immagine. Diventano dunque una famiglia di giuristi.

La storia del castello si propaga nel 1491: una data così ricca di suggestioni, appena un anno prima della scoperta dell’America. Un passo prima di un’era che si spalanca, sboccia una storia di famiglia e di territorio.

Ci piace notare le tracce prudenti, a volte pudiche, altre sofferenti, delle donne. Se questa storia inizia, è per il matrimonio di Bartolomeo I Barattieri con Maddalena Dolzani: fu lei a portare in dote i beni di San Pietro in Cerro.

Ma poi viaggiando in questo maniero, immerso nel parco invitante che ne accentua la riservata bellezza, tra le decorazioni ne incontriamo una che ci fa pensare a “Una stanza tutta per sé” e a Virginia Woolf. O per dirla in altri modi, alla sorella di Shakespeare, colei che avrebbe scritto con la stessa – o superiore – potenza creativa, se avesse potuto. Perché dalla letteratura scivoliamo nell’arte e ammiriamo nel Salone d’Onore un gruppo di cavalli: c’è la scritta “Leonardo, Hernani, Magu”. Che significa? Si ipotizza che l’autrice di questa raffigurazione fosse la contessa Maria Zangrandi Barattieri (1855-1941), che amava dipingere, con l’aiuto del figlio Guido. Ma una donna non può ancora rivelare la sua arte, solo sussurrarla.

E ancora, anzi prima una donna deve combattere, talvolta soccombere, anche per amare. Anche questo castello ha il proprio fantasma, che racconta proprio questa sorte.

Ma questo luogo è fatato per la sua storica capacità di andare oltre. Se già in una sala respiriamo l’amore per l’Oriente, che cominciava a essere esplorato, l’area “Museum in Motion” ci toglie il fiato per le incursioni in anni e stili. Uno spazio particolare va a Gianni Brusamolino, ma all’interno della varietà di opere non possono non colpire dei robot atteggiati in modo avvincente. Sono un richiamo, anche se ancora non lo sappiamo. Dobbiamo scendere nei sotterranei per scoprirli e trovare i guerrieri di Xian. L’esercito di terracotta, sembra procedere silente. Gli automi non sanno tacere, come noi.

A tavola

Questo affiora dal castello e usciamo con la consapevolezza di messaggi che si possono cogliere fino in fondo solo qui. Solo attraversando il viale, respirando i profumi della vegetazione, visitando poi le sale e scoprendone le tracce di ogni epoca. Anche vedendo come ogni epoca si ricongiunga: sul muro si può notare ancora il tratto dell’altezza di un figlio, un comportamento che ha viaggiato nei palazzi e negli appartamenti di ogni tempo.

Come cucinare, assaggiare, condividere è un gesto che si rinnova e si mantiene. Siamo arrivati al Nido del Picchio, da Daniele e Lucy. Siamo entrati nella loro cucina prima, grazie a un articolo di Identità Golose.

Adesso ci sediamo e sono circa le tredici: è un domenica quieta, ma non per chi sta parlando prima di tutto con la sua arte ai fornelli. Resteremo qui fino alle quattro di pomeriggio, come in quei pranzi di famiglia in cui si tende a rallentare per cogliere ogni dettaglio, ogni notizia in più che mostra il fluire del tempo. Perché c’è sempre qualcosa da dirsi, anche quando ci si conosce da sempre. E con Daniele è così: il nostro primo incontro è trovare valori in comune con naturalezza. Il ristorante ci dedica anche un suo delizioso blog.

Lo chef ci parla poco di sé. Il suo discorso abbraccia i colleghi come Isa Mazzocchi de La Palta o le cantine del territorio da cui si rifornisce. O ancora gli interessa cosa abbiamo percepito a San Pietro e si sofferma anche sulla bellezza di Castell’Arquato.

«La nostra provincia – sostiene lo chef – non ha nulla da invidiare ad esempio alle Langhe o ad altre terre. Dobbiamo far sapere ciò che abbiamo, dai castelli alle nostre specialità. Bisogna prendersi del tempo, appunto». Daniele Repetti con alcuni suoi colleghi (da Isa alle cantine Romagnoli e Luretta, coinvolgendo anche il castello) si è mosso per far conoscere meglio queste potenzialità.

Essere a un’ora da Milano è un’opportunità, non un limite. Ma non sono soltanto la bellezza, la bontà culinaria e la storia a far nascere quest’alleanza: «I valori. L’etica del lavoro. Che cos’è la sostenibilità per me? Le cose cominciano sempre da noi. Se sono onesto, mi comporto bene con gli altri e pretendo che loro lo facciano con me, diventa una catena…». La sostenibilità dunque è questo: responsabilità individuale, che si allarga, contagia, è generosità e fermezza insieme.

E’ rivolgersi a coltivatori – per avere gli ortaggi – che si prendano cura del territorio, che non lo impoveriscano e il risultato nel piatto è sentire i sapori, originari.

E ancora, che cos’è l’identità per Daniele e i suoi colleghi? Celebrare il gusto del territorio, senza avere paura di viaggiare. Di rendere perfetto un piatto con spezie dell’Iran, perché accogliendo l’esperienza dell’altro si valorizza la propria. Lavorare sul pane, perché questa è opera che per eccellenza coniuga ricerca e tempo. Trasformare le barbabietole in una tartare impeccabile con l’accostamento di mandorle e zucchine. Concentrarsi sulla pasta, confidando di essere rimasti ammirati quando si è vista una ragazza afghana che con le proprie mani la produceva come un’artista. Proporre un dessert che è nato dal mondo dei fumetti e narra come i quattro elementi che ci tengono in vita si possano ritrovare nel piatto.

Ascoltare gli altri. Anche un picchio che prende dimora su un albero e suggerisce un nome, quello del ristorante, spicchio importante di identità.

Non si scopre in 5 minuti, la provincia di Piacenza – conclude Daniele -, non si esplora con la logica del tutto e subito. Bisogna dedicarle del tempo. E dedicarne così anche a se stessi.

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